di Maurizio Mozzoni
Finisce agosto, la vita di tutti i giorni riprende il sopravvento e mi trovo a tarda sera in comunità.
Quasi tutti i minori sono a letto, dormono o fingono di farlo. Qualcuno si è alzato pochi minuti fa, tra meno di mezz’ora prenderà l’autobus e comincerà il suo turno di lavoro da panettiere.
È parte integrante di questo lavoro; spesso la gente ce lo dice in faccia: “Ma è un lavoro questo?”
È lavoro vegliare sul riposo dei minori, aspettare i camerieri che tornano dai ristorante, i panettieri che escono? Assicurarsi che l’innamorato non passi l’intera notte al telefono e che tutto proceda per il verso giusto fino a domani mattina. È lavoro questo?
Tempo fa me lo chiese anche la presidente di una grande cooperativa di Milano: “Ma perché stare lì a guardare gente che dorme le pare un lavoro degno di nota?” In questa domanda c’è della cattiva intenzione, serve a questi signori a sostenere che il periodo che va dalle ore 22:00 alle ore 6:00 del mattino, per un educatore non sia lavoro.
Nel mondo capovolto che è quello educativo il lavoro notturno, che per tutti è lavoro retribuito con maggiorazione diventa lavoro gratuito.
Stai in comunità (da solo con 10 o 15 minori), non puoi uscire, per qualunque cosa devi intervenire, ma nessuno ti paga.
Però è permesso dormire. Puoi chiudere un occhio, se ci riesci. Magari lo puoi fare su un divano sfondato in salotto, magari su una sedia. Poco importa, tanto non dormirai davvero, ogni piccolo rumore, ogni porta che si apre o si chiude, ogni pensiero che ti passerà nella testa ti faranno sobbalzare.
Domani, alle 8:00, potrebbe andarti bene, potresti smontare e andare via, oppure potrebbe andarti molto male e potresti dovere fare ancora altre 8 ore di turno. Perché in una comunità che si rispetti un educatore può arrivare a lavorare anche 24 o 30 ore consecutive, senza fermarsi, ma vedersene pagate solo la metà.
La chiamano notte passiva e per me, che lo denuncio da anni, è solo uno dei mille modi criminali con cui il sociale si regge in piedi.
Da qualche tempo l’italiano medio si è svegliato. In Italia siamo fatti così, per capire che siamo stati fregati ti deve cascare il cielo in testa (o peggio, un ponte), ma noi, gli operatori sociali, questa storia del privato che si prende pezzi di pubblico, la viviamo sulla nostra pelle da anni. Per noi operatori sociali è molto semplice capire come funziona il concetto di privatizzazione. Non abbiamo avuto bisogno di vedere un ponte crollare, ci è bastato vedere le nostre vite andare in pezzi.
Il privato che entra nel pubblico lo fa sempre con le “migliori” intenzioni, più efficienza e meno costi; più velocità e flessibilità, meno regole, meno lacci e lacciuoli,…
Inutile che chi legge ora si stracci le vesti. Fino a poche settimane fa a dire che questo modello era una truffa eravamo in pochi, pochissimi. A destra come a sinistra la privatizzazione è stato un mantra, un dogma: guai a dire che dietro la facciata perfetta e pulita c’era solo un orizzonte di cartapesta. Noi abbiamo vissuto la degenerazione del lavoro prima di tutti e, prima di tutti, ci siamo accorti che allo Stato delle nostre condizioni di vita e lavoro non importava assolutamente nulla. Bisognava fare contento il cittadino consumatore, vuoi benessere e vuoi pagarlo poco? Chiedi alle cooperative sociali, penseranno a darti i servizi al minor prezzo consentito. Sulle spalle delle personale, ovviamente.
Da mesi giriamo l’Italia in lungo e in largo. E da mesi vediamo lo sfacelo che questa idea di società ha creato. Il lavoro che questa gente offre è lavoro POVERO, lavoro che usura fino al burnout.
Ricatto, violenza, sopraffazione sono all’ordine del giorno, ma gli operatori continuano a tirare avanti perché loro, almeno loro, al welfare ci credono.
Il prezzo è altissimo però. Ogni giorno arrivano mail, contatti. Ogni giorno qualcuno ci scrive e ci porta il suo disagio, ci dice di non potercela fare più, di non avere più la forza di andare avanti.
La differenza tra pubblico e privato è semplice, addirittura lampante: il pubblico mira al benessere del cittadino, il privato mira al benessere dell’azienda e questo benessere si concretizza nel concetto di Utile. In questo sistema l’operatore è carne da lavoro, se salta se ne prende un altro. Ma il cittadino cos’è? È portatore di valori, idee e bisogni o è solo cliente? E a questo cliente interessa la vita dell’operatore o lo vede solo come un pezzo intercambiabile all’interno di un sistema di sfruttamento?
La notte nella mia comunità continua. Penso a quanto sono fortunato. Io domani alle 8:00 tornerò a casa, qui da me la notte è pagata, ci sono volute lotte e un processo finito in appello per sancire che la vita di un educatore non vale meno di quella di un altro lavoratore, ma appena oltre il cancello so che ci sono migliaia di colleghi che stanno lavorando “passivamente” per tenere in piedi le loro comunità e che magari credono che sia del tutto normale. Che se fai parte di questo sistema forse un po' te lo sei pure meritato, che alla fine va bene così.
Questo è il vero capolavoro del privato che si mangia il pubblico, una magia perversa. Un maleficio in cui tutto scompare, prima la dignità del lavoro, poi la sicurezza del lavoro e, alla fine, scompare pure l’utente.
Poi ogni tanto crolla il cielo. E qualcuno se ne accorge.
Maurizio Mozzoni è educatore sociale e sindacalista; con Daniele Grassini coordina la pagina Facebook Educatori CGIL Milano.
È autore con Mariacristina Faraci e Daniele Grassini del volume EDUCATORI, sfruttati, malpagati, ricattati
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