LANGSTRASSE (Zürich - 2025) di Lorenzo Zucchi
- edizioni UNDERGROUND?
- 13 ott
- Tempo di lettura: 4 min

L’inferriata ha un vago sapore rétro, chiude un ponticello minimo sulla vista del lungofiume; un giorno lontano queste erano cartoline turistiche. Turisti locali al bar, boccali di birra, barbe bianche, passeggini; in cielo sembra esplosa un’eclissi lunare al tramonto, semafori che lampeggiano, scaffali pieni di cioccolato e patatine, culatello e bresaola, sigari e antidolorifici.
I colleghi hanno attivato un ponte di contatto da curiosità primordiale, anche chi senza essere interpellato per primo non avrebbe mai scritto.
"È vero che la stazione è tutta aperta?’" il confronto con Milano Centrale è impietoso, nell’assenza di degrado. Qui le farmacie sembrano addirittura boutique.
Monopattini in uso, statue giganti che pendono dal soffitto, gente che transita mano nella mano, l’attesa alla pensilina del tram, tavolini all’aperto degli ultimi bagliori d’estate. Una sala illuminata dai faretti, nobiltà da sedie nere, lingue che si mescolano senza ferirsi; cibo che accarezza altre latitudini, senza raggiungerle, senza sorprendere, senza deludere. Non è nel prolungare per sempre le certezze imposte dalle certificazioni che si può trovare una nuova vita.
"Quanto costano gli Uber lì?" qui non c’è l’NCC, ma le stime sono comunque sorprendenti, per Zurigo, per la Svizzera. Tassisti di Basilea, di Delhi, di Islamabad, di Zurigo.
Nel vapore nebulizzato di un momento riemergono cieli similari, cieli di speranza, cieli di iniziazione. Ricordi del giorno prima, davanti a una portiera da aprire al raggiungimento di un indirizzo, nuvole riflesse dal vetro di un negozio di biciclette, una coppia che risale le scale fino alla ferrovia, tappi di birra nei bicchieri di vetro. Il profumo della carne che invade i binari, le luci rosse e viola di quando farà freddo, i capelli biondi di chi intercetta con un sorriso l’imbarazzo e la felicità di essere qui.
"Come si vive a Zurigo?" a una domanda così non si può dare risposta in poche ore, perché l’entusiasmo di ogni nuovo inizio pesa troppo. Ora però è tempo di fare i conti con le occasioni perse in passato. Quel quartiere sempre schivato con grande cura: Langstrasse, proiezione di un film divenuto troppo importante per i suoi meriti.
Una strada che risale alberata verso la tangenziale, una funicolare che cammina piano, insegne di hotel al neon, sedie impilate di locali vegetariani chiusi. Non è per questa marginalità di strisce pedonali gialle che emergeranno vibrazioni positive, meglio scendere scalini protetti dall’accezione del monumentale, ritrovare il fiume, chissà come si chiama. Sandali aperti, unghie laccate. Capelli lunghi, parificati, neri. Fiumane di zurighesi che escono dall’evento di musica elettronica notturna al museo; unire l’espressione contemporanea dell’arte con quelle più tradizionali è già una grandissima vittoria.
"C’è ancora la scritta Napoli Centrale?" affermativo, dal finestrino oscurato di una prima notte a Manegg, in quel buco di periferia sezionata dalle rampe autostradali, dove i cani scorrazzano liberi nei percorsi degli stagni, dove le turiste del Minnesota segnalano caffetterie famose per l’insalata greca. Tutto è impersonale qui, eppure splendido.
C’è movimento sulle piattaforme della stazione centrale, i binari si prolungano idealmente in strade da battere: parcheggi di biciclette, alberatura prossimale, negozi vintage, complessi di uffici in costruzione, Vespe colorate, palestre aperte a un’idea di notte. Zollstrasse, il cuore comincia a battere forte, un abbaino con la luce accesa chiede di essere chiamato casa.
"Mi hanno detto che la città non è un granché!" ecco, appunto, in questa tranquillità da centro abitato tra i più sicuri al mondo c’è qualcosa a cui tanti non sono abituati, nell’energia da cinquecentomila abitanti. Ci può essere assenza di preoccupazione anche senza l’assenza di vita.
Un ponte giganteggia all’appuntamento dell’ora blu in cielo. Sembra qualcosa di troppo bello, realizzato pochi mesi fa, di certo nel 2025, come se le amministrazioni in qualche posto del mondo avessero davvero il potere di migliorare l’aspetto estetico dei quartieri.
Murales, iniziano i locali. Ciclisti con il casco, nel rispetto del traffico pedonale. Scattano le foto del telefono, un gazebo di street food vende brezel caldi e birra artigianale. La sete è santa, in fondo, proprio come l’amore.
"La birra che ho bevuto io era un ‘no’!" beh, i produttori universali ormai sono due: Heineken e Carlsberg. Cercare rifugio nella scelta più facile va fatto con un minimo di circospezione.
Ma con la testa che gira può bastare davvero anche solo un’insegna nota, una rossa, una che si trova ancora appesa agli ingressi dei locali dei palazzi ottocenteschi in bugnato. C’è un tunnel, adesso, forse porta alla libertà, a giudicare da quante persone lo stanno percorrendo, tutte nella stessa direzione, verso Langstrasse. Luci di mille colori che incendiano la città, a mezzanotte le terrazze chiedono silenzio nel rispetto dei balconi vicini, anche di quelli degli hotel, degli ostelli, dei palazzi occupati dai discopub. Squillano i telefoni, si risponde, si racconta la serenità.
"Mi sa che in quanto a donne non sei messo male!" nemmeno a emozioni, in notti così belle da essere irripetibili, perché non sarà mai più la prima volta.
Mattonati di un’altra Terra, in un’altra lingua. Mescolarsi alla gente sul marciapiede, volare via, farsi martellare dall’esplosione di mille suoni differenti. Finta moda italiana, frutta e verdura, danze sudamericane, telecamere spente, ragazzi che seguono la pallina su un campo da biliardino davanti alla finestra dei passanti, salsicce con la senape in involucri di carta, cocktail bianchi in bicchieri di plastica.
La gentilezza di un buttafuori spalanca le porte aperte alle danze, la speranza di una nuova partenza colora le pareti di rosa e di azzurro. Corpi che si muovono oltre un vetro. Bottiglie che si accumulano su un bancone. Vasi di piante esotiche dove nascondersi all’occorrenza.
"Magari sono impopolare io, però a me la Svizzera piace!" ricondurre un paese a poche emozioni sfuggenti potrebbe non essere corretto da un punto di vista semantico, ma queste parole fortificano. Sfuggono, le lucine verdi, gialle e rosse. Sfumano nella svolta a sinistra di un van. Ripartono dai vetri, per l’ultima proiezione di un sogno.
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