Introduzione
di Maurizio Mozzoni
Le professioni di cura sono professioni pericolose. Se facessimo la lista di tutti i rischi a cui un operatore sociale si espone ogni giorno molti “non addetti ai lavori” ci chiederebbero senza alcun dubbio chi ce lo faccia fare.
Un operatore, un educatore in special modo, si espone al rischio di aggressione, a rischi legali, a rischi biologici. Un educatore che lavora in comunità, soprattutto se con presidi di prima accoglienza non sa chi sia l’utente che la polizia o il servizio sociale sta trasportando, nottetempo, verso la sua struttura. Lo accoglie, gli dà rifugio, ma spesso le informazioni che gli vengono fornite sono minime: potrebbe essere affetto da qualche malattia? Potrebbe avere problemi psichiatrici? Ha pendenze con la giustizia? Solo il tempo potrà dare delle risposte, nel frattempo ci si augura che tutto vada per il verso giusto.
L’educatore che lavora nella scolastica si trova a contatto con minori con patologie spesso severe, diagnosi di ADHD, borderline, autismo, ritardo cognitivo grave/gravissimo. Minori i cui agiti sono imprevedibili e che spesso tendono a mal sopportare l’immobilismo che la disciplina scolastica impone. Coloro che lavorano con i disabili adulti nei CDD o nei CSE sanno bene cosa vuol dire affrontare, per esempio, la crisi di un malato affetto da Sindrome di Down che ha, per mille motivi, scompensato.
Tutto questo è ovvio e palese, si potrebbe dire che tutto questo è alla luce del sole. Nessuno ha problemi a parlarne e, anzi, a volte questo fa parte della narrazione del nostro lavoro. Una medaglia da appuntare al bavero della giacca. L’educatore si prende dei rischi, anche dei grossi rischi. L’educatore è un po’ avventuriero e un po’ dottore, in definitiva è un mestiere per matti e temerari… decisamente, non per tutti.
Dopo i nostri studi, dopo il primo “battesimo del fuoco” con l’utente problematico, dopo il primo scontro pesante… siamo certi che niente potrà farci indietreggiare, forse giusto lo stipendio da fame che ci danno e che, a malapena, ci fa campare. C’è solo una cosa che è davvero difficile da affrontare: noi stessi.
Negli anni in cui chi scrive ha lavorato con i colleghi e per i colleghi la cosa più difficile è l’incontro con coloro che non ce la fanno più. Con quelli che hanno le pile scariche. Con i colleghi in burnout.
La sofferenza ha molti modi per manifestarsi, a volte è lenta, sale pian piano, l’ironia diventa sarcasmo, il sarcasmo diventa cinismo e fastidio; la voglia di vedere i colleghi si affievolisce, l’interesse per gli utenti scompare. Man mano ci si comincia a sentire prigionieri di un ruolo e di un luogo, troppo vecchi per andarsene e cercare altro, troppo giovani per “marcire” lì dentro. Lentamente, ma inesorabilmente, quello che prima era il senso del fare giornaliero diventa asfissia, un “tirare a campare” sempre peggio e sempre meno, finché non te lo dici da solo che non ce la fai più.
Altre volte, e forse sono le peggiori, tutto il malessere esplode in un colpo solo, con un sintomo che pare non aver nulla a che vedere con quello che facciamo. Un forte mal di schiena impedisce di andare a lavorare, un attacco di panico ti coglie durante un momento libero (uno dei pochi)… difficile ricondurre il sintomo al lavoro, ci vuole tempo, ma in quel tempo la sofferenza si acuisce sempre di più.
Il burnout è il peggiore dei rischi per un educatore, il più subdolo, il più devastante. Tutti i pericoli della professione sono superabili e, in un certo qual modo, servono a costruire l’identità del professionista dell’educazione. Il burnout, invece, resta lì, solo e in ombra, annidato nella parte oscura di noi.
L’educatore non può dire di stare male, non può farlo con coloro che gli stanno vicini perché lui è quello che opera nella sofferenza e “il dottore non si può ammalare”, non può dirlo ai coordinatori e ai superiori perché teme che il giudizio negativo della struttura nei suoi confronti potrebbe essergli fatale, non può ammetterlo nemmeno con se stesso perché, all’interno di una professione dai contorni talmente sfumati che ci può star dentro di tutto e, per contro, non si capisce esattamente di cosa sia fatta, la sua capacità di resistere agli urti della vita pare essere una condizione costitutiva del sé.
“Se un utente mi rompe due costole durante una crisi posso stare a casa per qualche tempo ma poi ritorno e faccio il mio lavoro, ma se mi sono rotto da solo cosa faccio?” Mi disse tempo addietro un educatore a margine di una conferenza. Già, cosa faccio?
Nella nostra vita lavorativa diciamo mille volte ai nostri utenti che stare male è un diritto, anzi che stare male è il primo passo per stare meglio ma, quando tocca a noi, spesso, scappiamo dalla realtà. A volte ci nascondiamo dietro a paraventi pur condivisibili: “Se avessi un lavoro remunerato meglio non starei male”, “Se prendessero in considerazione le mie competenze non mi sentirei così svuotato”… ma sappiamo che questi sono solo alcuni aspetti di un problema più complesso che investe la nostra persona e la nostra professione per quello che è. A giocare con il fuoco, prima o poi ci si scotta. Dobbiamo essere consapevoli che nessuno sta più vicino di noi a certi tipi di fuochi. Oltre a questo, noi sappiamo bene che, in alcuni casi, a volte nella maggioranza, non siamo chiamati a spegnere il fuoco ma ad abbracciarlo. Non siamo medici, non siamo poliziotti, non siamo insegnanti, noi non giudichiamo, non curiamo i sintomi. Noi, gli educatori, diamo senso alla persona. Questo ci mette, spesso, in una posizione di intimità con il dolore dell’altro, l’altro non ci chiede di lenire il male che lo affligge, ci chiede di portarne un pezzo con noi e questo lavora dentro il nostro spirito, scava e lascia ferite.
Parlare di questi argomenti con un taglio psicologico ci sembra importante, ci sembra essenziale dare uno sguardo nel nostro intimo e cercare le parole del disagio lavorativo della nostra professione. Ci sembra importante perché sapere osservare i sintomi, riconoscere le parole e comprendere i modelli è l’unico modo per crearsi uno scudo. A volte non serve, a volte ci si fa male ugualmente, ma sarà comunque importante sapere che il nostro malessere non è solo nostro, che siamo acrobati appesi a un filo e che serve, per poter cercare di volare, noi e i nostri utenti, una rete sicura nella quale, nel caso, poter cadere. indice analitico dell'opera
LAVORO E IDENTITÀ di Serena Saggiomo
- Premessa
- I paradossi del lavoro di cura
- Pecunia non olet o l’annosa questione della retribuzione nel lavoro educativo
- L’educatore senza voce: la storia di Rossella
STORIA DI UNA (MODERNA) CAPINERA di Sara Loffredo
- Premessa
- Alle origini dell’educazione
- INLAND EMPIRE: nella psiche dell’educatore
- Un’identità in fieri
- Educazione, essere e cura
- L’ambiente educativo
- Dalla storia sociale al progetto personale, tra passato e futuro
LE PAROLE DELL’EDUCATORE: SILENZI E ASSENSI DI UN MESTIERE A RISCHIO di Lauria Birtolo
- Il sistema educativo come servizio: l’educatore-oggetto
- apertura e chiusura di un caso: Giorgio e l’educatore-oggetto
- Di cosa si lamenta un educatore? Compenso, fatica e sofferenza nel discorso soggettivo degli educatori professionali
- Parole vuote e parole piene: l’educatore e il suo inconscio
- Fabio il cuoco LA FIAMMA E I FANTASMI di Sara Arrighi
- Il lavoro tra realizzazione e disagio
- Disagio lavorativo e professione educativa
- Quando lo stress diventa sindrome: le dimensioni del burnout
- Segni e sintomi del burnout
- Quali sono le cause del burnout?
- Il ruolo dei fattori organizzativi
- La terra bruciata: il caso di chiara
- Tre cose vuole il campo: buon lavoratore, buon seme, buon tempo
UN OSCURO SCRUTARE: lavorare su se stessi nella professione educativa
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