2002
Le strade sono trafficatissime, a senso unico, masse bianche e grigie di taxi e veicoli privati che ignorano le leggi della semaforistica. Gli ingorghi agli incroci sono la regola, il clacson suona latente. Nelle laterali il buio ha già preso possesso delle saracinesche abbassate, le insegne delle compagnie aeree in uffici vuoti di distributori d’acqua minerale e succhi colorati, passaggi tra le case come centri commerciali di fumerie e fast-food da trovare nei meandri di corridoi deserti. I vasi con le piante accompagnano i timidi fuscelli che sanguinano dai marciapiedi. Egypt? Chiede conferma il venditore ambulante. Una toppa in più per un percorso verso l’ignoto. Talaat Harb non poteva essere una breve introduzione migliore, di compostezza e pregio architettonico uniforme: i sei palazzi che cintano la statua, una vaga somiglianza genovese, l’affollamento dei percorsi pedonali a rispecchiare il caos motorizzato circostante. E il fiore di loto ha una stanza con bagno e un balcone che spazia sui tetti e sugli abbaini, sui balconcini, sui cortili, sulle antenne paraboliche. Ciao nonna! ‘Che strano sentirti così bene, e sapere che sei al Cairo!’ Un piccolo tavolo all’aperto è preparato, le luci fanno girare la testa più della Stella, icona assoluta della produzione birraia locale, il cibo è semplice, senza pretese. Dici che non ti piace il caldo però vai sempre al caldo! Vero, Fabrizia. Ti stanno guardando male, vogliono mettere le mani su di te? Ci sono riferimenti storici nelle caffetterie dove si fa una sosta lungo il cammino. La prima parola per definire questa città non può che essere ‘affascinante’. Attaba è piena di edifici storici e di controparti funzionaliste di nessun valore, meri alveari per una popolazione fuori controllo, gente sdraiata sull’erba, bus rossi e palme, veli, minareti, negozi di vernici. Nulla può adeguatamente preparare alla meraviglia del Cairo islamico, tra il disordine colorato dei vestiti in vendita alle botteghe, i cappellini in testa dei turisti americani, le insegne in ferro battuto, il rosso, il bianco e il nero dell’aquila reale che volge il suo sguardo verso destra. Gli orpelli decorativi che destano sorpresa, monumentalità severe ed eleganti di geometrie che ornano finestre, porte, edicole, mura di cinta. Medievale non è un termine che si associa generalmente al paese dei papiri; sarà forse l’eredità troppo importante dell’antica civiltà? Inventarsi un paese contemporaneo che tenga in dovuto conto il passato glorioso nel nulla culturale attuale: questo sta riuscendo sicuramente molto meglio all’Italia (il che è tutto dire, ovviamente). Le mashrabiye si susseguono tra la polvere della preservazione delle colonne, tra i sacchi d’immondizia gettati nei cortili in rovina di antichi palazzi, nelle arcate gotiche dei bazar sopraelevati, negli scorci quasi europei di Muizz Street, un patrimonio monumentale immenso che scatena l’avidità della completezza, anche in assenza di traini. Khan-el-Khalili, ora sappiamo perché assomigli al bazar egiziano di Istanbul. La minaccia più grave è la povertà della gente che abita la zona, il saccheggio di opere d’arte non è affatto infrequente dicono le guide che intrattengono turisti con aneddoti poco patriottici e c’è sempre un thè da bere per assaporare le emozioni che si perdono in un vortice rapido, troppo rapido di immagini. Oltre la Bab Zuwayla attende placida la metà meridionale del centro, ricca di gemme dell’arte islamica: Sultan Hassan e la sua eleganza monumentale gemella, Ibn Tulum e il suo prototipo di semplicità solenne, Muhammad Ali e il suo argento che si sposa con l’oro tra gli aerei militari, le scalinate e i gruppi turistici della Cittadella. È nei tuoi occhi adesso, quello che è nella tua mente. Qarafa, la città dei morti, che l’Al-Ahly è la Juventus locale, da sempre l’argomento preferito dei taxisti e dei loro quotidiani da leggere con calma nel traffico bloccato. Sulle moto aspettano gli studenti, i graffiti che le rivoluzioni verranno, le colonne di portici universitari ascoltano le parole che accompagnano ogni timido corteggiamento e un barbecue di scalini da scendere diffonde il profumo di salsicce cotte nell’aria calda della notte. Nell’ufficio della polizia c’è una stanza dove si fuma, la corruzione non ti fa fidare l’uno dell’altro. Com’era già, il tuo programma? ‘Cairo in one day’? E i diplomatici, che la città è piena di auto dei vari papaveri. Attraversare la strada da pedone nelle direttrici principali è problematico. Lo stress cresce. Al momento giusto, la massa di gente in attesa si getta all’unisono sulle strisce, rendendo impossibile di fatto lo sport preferito dei cairoti, lo zig-zag dell’ostacolo umano. Tahrir appare così, nel suo disordine totale, nel suo spazio estremo da uffici statali, nella sua spianata da lampioni storici, il lato verso il fiume di hotel di lusso e bandiere della lega araba, la monumentalità che opprime i pensieri, dei palmizi, una Casa Rosada italiana che ospita nientemeno che il fatidico Museo Egizio. D’ordinanza è il manganello delle perquisizioni, stravagante il deposito, brussellese l’interno, stupefacente la collezione di statue, assoluto il buio che prepara all’oro massiccio di Tutankhamon e di altri gioielli minori. Ah, la Valle dei Re! Luxor, Karnak! Sadat, compianto o odiato? Mubarak, amato o odiato? Cairo Metro, ecco qualcosa che non ci saremmo aspettati da un universo così car polluting. E se la somiglianza maggiore è con le linee di Roma, l’affidabilità è alta, la sicurezza rinforzata, il biglietto iconico di linee nere che richiamano Paris, la fauna mista di giacche nere di pelle, camicie grigie, veli rossi e borse della spesa. L’anonimato impossibile, partout on entend parler en français, Saad Zaghloul, il quartiere delle ambasciate, El-Sayeda Zeinab, la monumentalità universitaria degli anni del protettorato britannico, El Malek-El Saleh, i veli neri dei quartieri poveri. Corriamo immancabilmente all’aperto, l’uscita da prendere è quella di tutti coloro che sono estranei alla vita quotidiana della prima città del mondo arabo. E il ponte azzurro di Mar Girgis porta ai cancelli di Coptic Cairo, il muro di cinta finto antico che separa dai treni, il flusso costante a sfuggire alla Nestlé e alla Coca-Cola per prendere possesso del piccolo quartiere di chiese cristiane tra i palazzoni popolari dei confini del ghetto. Meraviglie che trapassano ancora una volta il loro significato di luoghi di culto per regalare minuti di contemplazione stupita e ammirata: le scale scenografiche e i mosaici colorati della Hanging Church, le tombe silenziose della Sinagoga, la contaminazione tra arte decorativa e iconografia a Sergio&Bacco, il campanile romanico di Giorgio, tra i vicoli e i gradini di un palmizio protetto ad ingressi museali. Fuori dalle mura, l’assalto al turista è continuo e assillante: una cartolina da mandare, una lettera da leggere, uno scarabeo portafortuna da toccare, un papiro da incorniciare, una birra da bere. E quel tizio che si inventava racconti di viaggi, che direbbe adesso? Croci e mezzelune, vi odiate, ma siete solo vittime della stessa grande macchinazione. In lontananza le palme ad alto fusto prendono possesso della città, il sentore ormai fluviale di spianate dove costruire nuovi edifici residenziali per moschee da bravi musulmani. C’è una caffetteria di Hundertwasser e un ciuffo tenuto su con il gel, siamo arrivati sulle sponde del Nilo sacro, tra ospedali dove il dolore è attenuato dai pini e balconate panoramiche sui boschi di uccelli acquatici. Rawda è un’isola di edilizia abitativa per il ceto abbiente, la Kornish che corre lungo i suoi margini sa come colpire i cuori che amano le periferie metropolitane, calme vie residenziali che non ci sarà mai tempo per viverle, aiuole come mezzerie di ingresso a complessi monumentali dell’Ottocento ottomano, sassi che sbarrano strade vietate alle auto. We are murderers, we all, we all. Garden City catalizza le ultime pause, lo scenario già l’isola di Gezira, il suo casinò, la sua torre in stile che veglia sulla nazione egiziana, l’Opera del 1988 che farà scuola col suo stile neoislamico, il giardino lussureggiante di piante esotiche, le barche attraccate tra le colonne doriche di monumentali hotel in costruzione. Felfela, scostiamo la tua tenda. C’è chiasso. Canta una divina, dal vivo. Bisogna accomodarsi e cullarsi di vino, di lenticchie e di ceci, di sedie verdi e turbanti, degli attimi che durano per sempre. ‘Where do you want to go?’ To the Pyramids, in Giza. Doqi, le tue torri comunicano disagio. Zoo, Abbas, si sfreccia. Al Haram, così non va. Un viale di smog e case non terminate, senza scale di ingresso in una lunga fila di mattoni, occupate abusivamente da arrampicatori abituali, il fetore delle carcasse di animali e delle piramidi contemporanee di cumuli di spazzatura a uccidere d’un tratto le sensazioni positive della grande metropoli inquinata. Il tratto è traballante e non solo per l’ultima proiezione. Il cammello della foto ricordo può scatenare attacchi di vertigini e la rinuncia al breve tragitto non è una scusa per non pagare il simpatico finto beduino. Cheope, Chefren e Micerino si studiano a scuola. Ma se siamo nati da fumo e fuoco non possiamo mai veramente capire senza vedere, senza soffermarci, che a duecento metri inizia il deserto e le frotte di turisti si muovono tutto attorno. Strongly recommended in one shot (cit.). L’ingresso turistico spalanca un mondo atteso di cunicoli e claustrofobia che non si sente, la cella del faraone, una celebre tomba di videogiochi per bambini delle elementari, le colonne squadrate attendono il rifornimento dei van della Nissan, i settantatré metri della quarta dinastia una testa da osservare da ogni punto, or ‘The Sphinx: how to win friends and influence people’. ‘If you want to go and see Saqqara as well, I’ll bring you there, wait for you and then back to Cairo’. Così il paesaggio abbandona i tentacoli urbani e concede spasmi da macchina fotografica digitale, palmizi snelli e slanciati, mattoni a vista e cemento armato, frammenti di macerie come confini di proprietà agricole al limitare del deserto, università private, altalene, tessitura colorata, un orologio appeso a una parete esterna. Imhotep, gli archeologi stanno montando le loro impalcature. Djoser, i gradoni e la sabbia finalmente soffice. Userkaf, la scomposizione dei dividendi. Lastricatura, non fa caldo, e il mondo sotterraneo stavolta è una completa sorpresa di circoli filosofici e statuette votive. C’è un matrimonio all’aperto sulle sponde del Nilo, ci sono altre isole usate come parco agricolo, ci sono terrazze panoramiche dove bere il caffè, questo posto è veramente magico. Stasera uno spiedino di petti di pollo. Lo trovo? Per ora no. È la notte buia dell’anima. Auto parcheggiate in tripla fila, sedie gialle, compostezza da impero. Vespe arancio, bidoni azzurri, Abou Tarek vende dolci. Legno, patatine fritte, occhiali, l’associazione degli avvocati egiziani. Vendono scarpe. Ancora una pasticceria francese. C’è un posto di blocco, aspettano qualcuno. Svolto a destra. Svolto a sinistra…
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